giovedì 23 giugno 2011

In Campidoglio si delibera la "valorizzazione" del patrimonio immobiliare dell’Atac. Si vende solo per fare cassa: più metri cubi meglio è. La città non c’è, l’urbanistica è solo una leva finanziaria

RICEVIAMO E VOLENTIERI PUBBLICHIAMO DA RETE ROMANA DI MUTUO SOCCORSO:

Proponiamo all'attenzione di chi non lo ha già letto questo intervento di Giovanni  Caudo pubblicato il  16.06.2011  sul   http://www.eddyburg.it/article/articleview/17143/0/39/. Leggetelo anche se può sembrarvi un po lungo e fatelo circolare.

E’ da diversi anni ormai che la pratica urbanistica si fa senza più pensare alla città, ai bisogni e ai problemi reali. I meccanismi di finanziarizzazione che hanno trasformato la città in merce di scambio nelle transazioni finanziarie sono ormai noti anche al grande pubblico. Tutti stiamo ancora vivendo in pieno gli effetti di una crisi che ha avuto origine proprio lì in quei meccanismi. E’ forse il caso di non parlare più di urbanistica, quello cui assistiamo, sono pratiche degradate, che hanno perso qualsiasi riferimento all’urbs e ancora di più alla civitas: sono faccende immobiliari tecnicamente assistite.

A Roma il divorzio tra l’urbanistica e la città è evidente, è palese. Negli ultimi anni in diversi modi abbiamo testimoniato di questa condizione parlando del disagio abitativo e di come i meccanismi di valorizzazione del patrimonio residenziale esistente, che soggiacciono ai meccanismi finanziari, hanno comportato l’impoverimento dell’ex ceto medio. La conseguenza, forse la più grave, è stata negare il diritto alla città a una fascia crescente di popolazione. Nel 2008 sono stati quasi 30 mila i residenti romani che si sono cancellati per andare a vivere nei comuni della provincia: da Orte in giù, in su e di lato, con una crescita del 14% rispetto all’anno precedente.

L’urbanistica “degradata” a leva economica e finanziaria è stata frequentata soprattutto dagli interessi privati e dalla necessità di fare leva per investimenti spesso a debito, è così che si sono realizzati plusvalori enormi da reinvestire nella ristrutturazione di imprese, nella riconversione, o in meccanismi di patrimonializzazione (si pensi solo a cosa è stata l’avventura Telecom Italia per la Pirelli).

Oggi il Comune di Roma si comporta allo stesso modo, l’urbanistica serve a fare cassa e “tentare” di salvare l’ATAC. L’azienda di trasporto pubblico, investita pochi mesi fa dallo scandalo parentopoli, ha un passivo di 319,1 milioni di euro, debiti in crescita e si rischia il fallimento. Così l’amministrazione ha deciso di mettere in “vendita” i depositi dei tram, degli autobus e tutti quegli immobili complementari al trasporto pubblico che non sono più necessari a svolgere il servizio. Un patrimonio importante, per volumi e superfici, che in molti casi è collocato in zone centrali della città. Questo della valorizzazione era un pensiero che aveva già fatto l’amministrazione Veltroni quando avviò la dismissione del deposito Atac di via della Lega Lombarda (un’area a pochi passa dalla stazione Tiburtina). Un pensiero che trova riscontro in una specifica norma del piano regolatore vigente, quello approvato nel 2008, che nel comma 4 dell’art.84 prevede che nel caso di dismissione di questi immobili è obbligatorio redigere un Programma generale che individui “la SUL massima consentita, ferma restando la volumetria (Vc) esistente e fatti salvi comunque i limiti e le condizioni derivanti dall’applicazione della disciplina di cui all’art. 94, commi 9 e 10”. Limiti che fissano l’indice di edificabilità territoriale al massimo “pari a 0,5 mq/mq, di cui almeno la metà da destinare a servizi o spazi pubblici d’interesse generale o locale”.

La norma afferma tre principi essenziali: nessun incremento di volume, superficie edificata, quindi la SUL, pari a non più di 0,5 mq/mq di suolo e individuazione delle funzioni da inserire avendo cura di guardare la compatibilità con l’intorno. Tre principi che però non sono quelli che la Giunta Alemanno ha intenzione di affermare: così nella delibera con cui si vuole approvare il Piano Generale per la dismissione del patrimonio immobiliare ATAC si legge che i limiti imposti dalla norma di piano, la volumetria esistente, la Sul max e l’obbligo di riservare almeno metà della nuova edificazione a servizi pubblici “limitano i potenziali ricavi derivanti dalla alienazione delle aree”. Insomma così non si fanno soldi e non si salva l’ATAC!

Al sindaco non viene il dubbio che in talune aree quella dotazione di servizi non solo è necessaria, ma forse è insufficiente per riuscire a dare vivibilità alla città esistente. Insomma i soldi prima di tutto! Così con questa premessa il “Piano generale per la riconversione funzionale degli immobili non strumentali al trasporto pubblico locale” in discussione, e forse in approvazione, nella seduta del Consiglio comunale di Roma del 16 Giugno (oggi) opera una sequenza di forzature e di interpretazioni delle norme di piano al solo fine di poter disporre della volumetria massima possibile in ogni area oggetto di valorizzazione. Il risultato finale (calcolato per difetto) è che sui 130.500 mq di superficie territoriale interessati dalla valorizzazione, dove si potevano fare, a norma di piano circa 65.000 mq di Sul, di cui la metà da dare a servizi per il quartiere, se ne vogliono fare 141.500 (più del doppio) senza più alcun vincolo per i servizi. Ad esempio, nell’ex rimessa di San Paolo si potranno fare 18.500 mq di SUL (secondo il piano dovevano essere 5.000 mq), e una parte sarà anche a residenza per 240 abitanti. L’ex Rimessa Vittoria, nel quartiere Prati, avrà una capacità edificatoria di 18.500 mq di Sul, invece di circa 8.000 mq consentiti dal piano vigente, e gli esempi potrebbero continuare.

Si può condividere che anche la norma vigente del piano deve essere oggetto rivista perché comporta un eccesso di meccanica algebrica lì dove invece i problemi sono complessi e articolati e dove ogni area fa storia a sé. Si vuole cambiare la norma? Lo si faccia, non è certo nella difesa acritica dell’attuale norma che ci si vuole attestare. Ma non la si può cambiare così, dichiarando per altro, la conformità al piano (sic!). Una procedura che rende debole il Piano e lo fa facile oggetto delle successive contestazioni. Se c’è una differenza con la giunta precedente forse è proprio qui, nei modi. Probabilmente si sarebbe arrivato a risultati non tanto diversi ma lo si sarebbe fatto con un po’ meno di superficialità di approssimazione e di inconsistenza tecnica.

Una città capitale non può trattare in questo modo processi di riconversione così importanti e decisivi per le sorti future della città, non può affidarsi a un così basso livello di pensiero dominato dal solo criterio della mercificazione della città. Si predisponga un piano serio, dettagliato per ogni area, si sottoponga ad una analisi attenta ogni area e il suo contesto potendone definire non solo le quantità ma anche la sostenibilità delle funzioni, la qualità delle trasformazioni che si vuole conseguire, si dia vita a una operazione di alto livello che possa essere di esempio per tutte le altre iniziative, e nei prossimi anni saranno sempre di più, che riguardano la riconversione e la trasformazione della città esistente.

Sindaco si fermi; se si vuole risanare l’ATAC questa è la strada peggiore: così si affossa l’azienda, si sperpera il suo patrimonio immobiliare e si aprono anni di contenziosi che saranno pagati a caro prezzo dal’azienda. Per non parlare delle conseguenze negative sulla città; ma questa non è più oggetto dell’urbanistica capitolina

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